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nuovo alla lente di uno dei due oblò per dare un occhiata fuori. Che strano! Molte
stelle erano scomparse. Strizzai gli occhi e tornai a guardare. Inutile: metà del cielo
era completamente nero. Che stessi diventando cieco? Ma no, vedevo nitidamente le
stelle dell altra metà.
Guardai con più attenzione e mi mancò il respiro. C era qualcosa fra me e il cielo
stellato, un po' di fianco rispetto al Lunik . Doveva essere un altro corpo celeste, so-
speso accanto a me nello spazio. Poi un raggio di sole colpì l ostacolo di striscio, e
dal bagliore metallico compresi che si trattava di un oggetto artificiale, un ovoide al-
lungato con due grossi alettoni in coda e il muso traslucido di una sostanza trasparen-
te.
L astronave di soccorso promessa dal marziano, era arrivata! La vibrazione l aveva
guidata fin lì dalla sua base sulla Luna lontana. Sentii un formicolio nelle ossa e capii
che solo il mio stato semicomatoso precedente mi aveva impedito di percepirlo quan-
do era cominciato, forse ore e ore prima.
Adesso dovevo soltanto uscire dal Lunik e salire a bordo di quella strana nave
spaziale.
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Il problema di cambiare veicolo non fu così difficile come si potrebbe supporre.
Tenuto conto che nello spazio, in caduta libera, io non avevo peso, potevo darmi
semplicemente una spinta e fluttuare nella direzione voluta fino a collidere con
l ostacolo che mi avrebbe fermato. Il problema quindi, si risolveva così: sarei uscito
dalla capsula e, a spinte successive, sarei andato in direzione dell altro veicolo spa-
ziale fino a che non l avessi toccato. C era naturalmente, il piccolo dubbio di cosa sa-
rebbe successo nel caso in cui la direzione della spinta non fosse stata precisa, e io
avessi superato, galleggiando nel vuoto l altro scafo. Contavo però sulla vibrazione,
come sul fattore fondamentale per la buona riuscita dell impresa.
Dato che ero già chiuso nella tuta e respiravo l ossigeno delle bombole, mi mossi
strisciando nello spazio ristretto della capsula verso il portello stagno che, se non mi
ricordavo male, si trovava quasi sulla punta del cono, sigillato dall esterno. Il ricordo
mi immobilizzò: il portello non era stato progettato per essere aperto dall interno.
Aveva inoltre un notevole spessore, e, se aveva resistito alla spinta della velocità di
fuga e all attrito durante il passaggio attraverso l atmosfera terrestre, aprirlo non sa-
rebbe stato uno scherzo.
Spinsi con tutte le mie forze, ma senza risultato. Allora mi misi a tastarlo, nella
speranza di trovare il modo di aprirlo. Finalmente decisi di ricorrere alla forza bruta,
dato che, se non era stato studiato per essere aperto dall interno, non doveva nemme-
no essere stato concepito per resistere a violente martellate, sempre dall interno.
Presi un solido blocco di non so quale sostanza, che aveva costituito la base di uno
degli strumenti di bordo, e con quello mi misi a dare gran colpi contro il portello fin-
ché non sentii che cominciava a cedere. Allora mi ci appoggiai contro con le spalle,
puntando i piedi sulla paratia di fronte, e spinsi. Sentii il metallo scricchiolare, poi le
guarnizioni e i sigilli saltarono, e il piccolo portello rotondo si spalancò sotto la mia
spinta con uno schiocco. Fui proiettato nel vuoto, alla velocità di un proiettile. Se non
avessi avuto l accortezza di uncinarmi con un piede all orlo dell apertura, sarei stato
sparato nello spazio in un orbita mia personale, allontanandomi di chissà quanti chi-
lometri.
Invece, sebbene intontito, rimasi là aggrappato, mentre la poca aria contenuta nella
capsula svaniva nel vuoto.
Ero circondato da ogni parte dalla terrificante cavità dello spazio. Grande Abisso
dello spazio. Ero in mezzo alle stelle che brillavano sopra, di fianco, davanti, dietro di
me, ovunque insomma, salvo che sotto, dove la superficie metallica del Lunik , mi-
seramente minuscola in quella vastità, rifletteva i raggi del sole.
Muovendo i piedi, come se nuotassi, mi riavvicinai alla capsula e, afferrato con
una mano il bordo superiore del portello, mi misi a cavalcioni del cono. Guardandomi
intorno, localizzai la zona del cielo nero occupata dall astronave che, adesso, mi
sembrava paurosamente lontana, troppo lontana per raggiungerla con un balzo solo.
Ma non ci guadagnavo niente ad aspettare. Perciò rientrai nella capsula e raccolsi
qua e là pezzi di materiale di cui mi riempii le mani. Tenendoli ben stretti, mi rigirai
lentamente fino a trovarmi di fronte la boa spaziale e mi diedi una leggera spinta. Con
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